LA SETTIMANA SANTA

Liturgia Bizantina

Grande e Santo Lunedì: Giuseppe l'ottimo.

La giornata del Santo e Grande Lunedì è dedicata alla commemorazione di un personaggio che immediatamente viene collegato col Cristo sofferente e glorioso. Si tratta del figlio di Giacobbe e Rebecca: Giuseppe (cfr Gn 37-50), che la liturgia designa come l'ottimo hó pánkalos.
La connessione fra Gesù e la persona di Giuseppe è evidente, la vita di Giuseppe è prefigurazione di quella del Cristo: Giuseppe fu venduto agli Egiziani dai fratelli, Gesù fu consegnato nelle mani dei nemici da un suo discepolo.
Giuseppe fu messo in prigione e ne esce coperto di gloria, Gesù viene messo in un sepolcro e ne esce vittorioso sulla morte.
Queste e altre similitudini che analizzeremo, hanno portato la Liturgia e i fedeli a privilegiare la persona del Patriarca ad altri personaggi biblici, che pur avendo la loro importanza nel campo cristologico, non sono stati introdotti nell'ambito liturgico-celebrativo.
Il "caso" di Giuseppe però non è così semplice come può sembrare. Il suo inserimento nella liturgia, o, per meglio dire, la sua non completa estrapolazione, indica che il personaggio è talmente importante da non potersi togliere dalla commemorazione del Santo e Grande Lunedì, o da inserirsi per forza.
A lui sono dedicati solo tre inni in tutto l'ufficio del mattino e alcuni, più numerosi, in quello di compieta.
Storicamente parlando gli inni del mattutino riservati a Giuseppe sono più antichi del resto dell'ufficiatura. A lui, infatti, sono dedicati, oltre alla Memoria, il Kontákion, l'Oíkos e il Doxastikòn degli Ap¢sticha. Il Kontákion antico era un racconto in poesia di una certa lunghezza, e alle volte assumeva il tono di un vero dramma, con i dialoghi fra i vari personaggi.
Oggi giorno il Kontákion, che si legge generalmente dopo la sesta ode del canone del mattutino, è la risultanza di quello che è rimasto degli antichi kontákia: una breve composizione poetica di poche strofe che riassume il contenuto celebrativo della liturgia in corso.
"Alla fine del VII secolo e, soprattutto, nel completo arco dell'VIII, assistiamo a un rinnovato slancio creativo, proveniente dalle regioni della Bibbia, in modo particolare dalla Palestina, per opera di semiti ellenizzati più nella lingua che nella struttura mentale.
In realtà costoro s'inseriscono piuttosto nel solco della tradizione siriaca e nel giudeo-cristianesimo.
I Kontákia cedono il posto a nuove "composizioni", meno colorite e d'un lirismo teologico molto più contenuto, ai Canoni appunto.
Come testimonianze erratiche delle ampie composizioni precedenti, sopravvivono solamente, - come sopra abbiamo già detto - tra la sesta e la settima ode di ogni canone, il kontákion iniziale e un oíkos.
Il canone si presenta come un lungo inno liturgico costituito da nove odi le cui strofe s'intercalano tra i versetti delle nove odi bibliche utilizzate tradizionalmente nella liturgia orientale"(53).
Il caso di Giuseppe è dunque il caso di una commemorazione forzata: troppo forti sono i contenuti cristologici perché la liturgia potesse interessarsi solo del fico maledetto dal Signore e seccato, o della passione del Cristo.
Si può dire con certezza che il ricordo di Giuseppe nella liturgia, non è presente a Costantinopoli. Nel Tipikòn della Grande Chiesa (54), non si dice niente a proposito. Anzi le letture della Genesi si leggono fino ai vespri di Lazzaro, e sembra che la parte centrale riguardante la vita, le persecuzioni e la gloria del figlio di Giacobbe, non venissero lette (55).
Ma allora gli inni in quale ambiente liturgico sono stati composti e come sono giunti fino a noi?
Evidentemente ci troviamo dinanzi a un problema che difficilmente potrà trovare soluzione. Quello che però ci interessa è che il ricordo di Giuseppe non è stato cancellato ma conservato con un preciso motivo. Perché?
Olivier Clément nel suo saggio sul pentimento: Il canto delle Lacrime, ha definito i Kontákia e gli Oíkoi: "testimonianze erratiche delle ampie composizioni precedenti"(55).
In verità se si considerano tali composizioni nell'ambito del resto delle altre composizioni poetiche, l'osservazione è esatta: cambia lo stile, la lingua, la poesia, ma nel complesso si armonizzano con l'ufficiatura perché trattano del medesimo tema.
Nel caso di Giuseppe non è così. Si è ricordato sopra che la persona del patriarca biblico non appartiene alla tematica liturgica del santo e grande lunedì. Due infatti sono i temi che la poesia liturgica tratta con abbondanza: il fico maledetto e seccato, e la passione in generale.
Del primo tema troviamo la motivazione nel vangelo che si legge al mattutino (Mt 21,18-43).
Del secondo tema invece abbiamo testimonianze nel già citato Tipikòn della Grande Chiesa.
Al mattutino del lunedì della grande settimana, lì si canta come troparion del salmo 50 il seguente inno: "Tu che sei impassibile per la divinità, ma che per noi hai accettato (di soffrire nella carne), Signore, concedi alle anime nostre di poter celebrare nella pace la festa della tua resurrezione"(57).
Le letture della tritoéktê e del vespro sono quelle che si leggono ancora oggi nella liturgia bizantina e non hanno alcun accenno a Giuseppe.
Lo stesso problema sorge per le altre due memorie, con una particolarità che queste hanno un richiamo nel Vangelo letto ai vespri.
Da tutto questo si può dedurre che la memoria di Giuseppe era presente nella liturgia ma non a Bisanzio, o almeno non nella chiesa patriarcale di Santa Sofia. Forse nelle ufficiatura dei monasteri che, non essendo condizionate dal ritualismo unificante odierno, erano libere di strutturare l'ufficio secondo le loro esigenze e secondo le intuizioni poetiche dei monaci compositori di inni. Forse nella liturgia palestinese di Gerusalemme, o di S. Saba, o forse nelle altre liturgie orientali. Sta di fatto che è stata conservata solo una minima parte del culto liturgico di Giuseppe e che questo non proviene dalla Grande Chiesa di Costantinopoli.
Non si tratta dunque di una testimonianza erratica ma di una vera pietra miliare della spiritualità della Settimana santa e come tale accolta nella liturgia e proposta ai fedeli come esempio da imitare e come profezia del Cristo e del cristiano.
A conferma di ciò abbiamo una omelia molto antica di Asterio di Amasea (410), il quale ricercando le origini tipologiche della redenzione nell'Antico Testamento, ci offre il primo parallelismo tra Giuseppe e Gesù Cristo (58).
L'omelia è impostata su cinque precise tematiche.
La prima tratta della gioia della Chiesa-sposa, perché lo sposo, Cristo, è risorto.
La seconda è un inno alla notte pasquale di alto lirismo poetico.
La terza sulla persona del patriarca Giuseppe, icona di Cristo.
La quarta su Giuseppe, modello per i nuovi cristiani.
La quinta su Giuseppe testimone nell'ultimo giudizio.
E' sorprendente come la terza tematica è ripresa nella sua globalità nell'Ufficiatura del Nymphíos.
Giuseppe è visto come l'anticipatore delle sofferenze del Messia: tutto ciò che è successo al figlio di Giacobbe è ciò che il Signore ha sofferto nella sua passione.
Asterio stesso lo afferma quando dice: "Giuseppe prefigura il Cristo; non ce ne meravigliamo, i testi sono abbastanza chiari. Di Giuseppe è detto: "Giacobbe amava Giuseppe più di tutti i suoi figli"; del Cristo: "Il Padre ama il figlio: gli ha dato potere su tutto". Il Padre fa preparare per Giuseppe una tunica di colore; e il Cristo dice: "La mia anima esulterà nel mio Dio, perché mi ha rivestito di vesti di salvezza, mi ha ricoperto con il manto della giustizia, come uno sposo si cinge il diadema". Di Giuseppe è scritto: "Giuseppe era bello di forme e bello di aspetto"; il profeta dice del Cristo: "Tu sei il più bello dei figli degli uomini". I fratelli hanno disonorato Giuseppe; e i Giudei hanno schernito il Cristo: "Noi non siamo nati da adulterio". Giuseppe è stato inviato ai suoi fratelli come un medico ed è caduto nelle loro trappole come un nemico; il Cristo venuto come pastore misericordioso, si è fato crocifiggere come un ladrone. Giuseppe è stato venduto per venti monete d'oro; il Cristo per trenta d'argento. Uno dei fratelli ha venduto Giuseppe agli Ismaeliti: "Sù, vendiamolo agli Ismaeliti"; uno dei dodici apostoli ha venduto il Cristo agli Israeliti. Là Giuda lo ha fatto vendere; qui Giuda lo ha venduto.
Giuseppe è stato chiuso in un cisterna, il Cristo nella tomba. Le calunnie dell'Egitto hanno gettato Giuseppe nella prigione; le false testimonianze della sinagoga hanno consegnato a Pilato Gesù incatenato. Giuseppe era detenuto insieme a due eunuchi, un coppiere e un panettiere; il Cristo era stato crocifisso con due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.
Giuseppe inviò uno dei due eunuchi al palazzo del re; Il Cristo fa salire uno dei due ladroni nel suo regno: "In verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso". Giuseppe, prigioniero d'Egitto, si tolse i suoi vestiti e fuggì; il Cristo prigioniero della morte uscì dalla tomba, abbandonando il lenzuolo che lo ricopriva. L'Egitto vide le vesti di Giuseppe e non poté trattenerlo; la tomba vide il lenzuolo e restò priva del Signore, poiché non era in suo potere sottometterlo alla sua legge" (59).
Si tratta di una vera e propria meditazione sulla passione del Signore, prefigurata in Giuseppe.
Gli inni riprendono alla lettera le parole di Asterio confermando che la memoria del patriarca era presente nell'antica ufficiatura della Pasqua.
Ancora altre frasi sono degne di nota, poiché le ritroveremo negli inni: "Così voi tutti, che mi avete udito parlare di Giuseppe imitatene la saggezza (sôphrosynê)... Imita la sua castità (katharótês). (L'egiziana)si impadronì della sua tunica, ma non poté togliergli la sua temperanza... Se la padrona non ha potuto piegare lo schiavo sotto il peso del peccato, non lasciarti gettare, tu nuovo battezzato, nella schiavitù di una prostituta e respingi la schiava libertina (la passione), che si avvicina al tuo letto di uomo libero"(60).
E infine, continua Asterio, Giuseppe sarà a fianco di coloro che hanno conservato puro l'abito battesimale (stolê), ma biasimerà tutti quei battezzati che, dopo tutte le grazie ricevute, che lui non ha avuto, perché vissuto prima di Mosè e di Cristo, sono diventati schiavi della schiava, cioè della vita passionale, che invece lui, col solo timore di Dio, è riuscito a vincere (61).

Gli inni e il loro contenuto

a) Gli inni del Mattutino

Il kontákion

"Giacobbe piangeva la perdita di Giuseppe,
ma quel valoroso sedeva sul cocchio
onorato come re. Poiché allora non servì
ai piaceri dell'egiziana, in cambio fu
coperto di gloria da Colui che vede i cuori
degli uomini e distribuisce l'incorruttibile
corona".

L'Oíkos

"Ora aggiungiamo pianto al pianto; con Giacobbe
battendoci il petto, versiamo lacrime su Giuseppe
il casto, degno del nostro canto.
Fu schiavo nel corpo, ma serbò l'anima libera
ed ebbe signoria su tutto l'Egitto;
poiché Dio dà ai suoi servi una incorruttibile
corona".

Il kontákion e l'oíkos fanno riferimento agli episodi della Genesi narrati nei capitoli 37, 39 e 41, per quello che riguarda la sventura di Giuseppe nei rapporti con i suoi fratelli e la fortuna che trovò alla corte del faraone dopo la sua prigionia.
"E' evidente che Giuseppe è figura di Gesù: venduto dai suoi fratelli, trascinato da loro per invidia fino all'orlo della morte, ma esaltato e glorificato da Dio, che ne fa il salvatore del suo popolo e di quanti ricorrono a lui" (62).
Mentre il rimanente dei due inni canta la sua "castità", tema proprio del doxastikòn:

Il Doxastikòn

"Trovando nell'egiziana una seconda Eva,
si studiava il Drago di far cadere Giuseppe
nella lusinga delle sue parole;
ma egli abbandonò la veste e fuggì il peccato
e nudo non si vergognava,
come il Progenitore prima della disubbidienza.
Per le sue preghiere, o Cristo, abbi pietà di noi"

È interessante soffermarci su quest'ultimo inno e su quelli dell’Apódhipnon, perché la tematica della "castità" è più profonda di quello che può sembrare a prima vista.
L’argomento può sembrare il solito tema obsoleto di sempre, ma non è così, perché per castità si deve intendere non tanto la virtù che impone al cristiano l'uso corretto della sessualità, bensì la sôfrosynê che è la capacità dell'uomo di dominare se stesso, nella sua totalità passionale e non solo per le passioni sessuali.
Il tema ritorna negli inni dell'Apódhipnon, che benché più recenti degli inni del Mattutino, si ricollegano molto bene alla tematica della virtù e della mimêsis:

b) Gli inni della Compieta

Ode I

a) "Imitiamo la castità (la sôphrosynê)
di Giuseppe, o fedeli,
riconosciamo colui che ha onorato la natura
spirituale degli uomini,
vivendo anche noi con ogni vigilanza
nel compimento della virtù".

b) "Delineando l'icona del Signore,
Giuseppe fu gettato in una fossa,
e venduto dai suoi fratelli.
Tutto sopporta quell'uomo glorioso
vero tipo del Cristo".

Ode VIII

"Trovando nell'egiziana una nuova Eva,
il patriarca Giuseppe non si lasciò
trascinare ad una azione scellerata,
ma rimase saldo, come il diamante,
contro le passioni, senza divenire
schiavo del peccato".

Ode IX

"Sconosciuta agli impuri la castità
sconosciuta ai giusti l'iniquità.
Il grande Giuseppe sfuggì il peccato
e divenne modello di castità
vera icona di Cristo".

Lasciamo, anche per questo commento, la parola a Maria Gallo che ha saputo con poche parole essere genialmente esaustiva e comprensiva:
"Ci pare tuttavia importante sottolineare altri due elementi che possono sembrare meno ovvi: il confronto con Adamo e l'invito a riconoscere in Giuseppe colui che ha onorato la natura spirituale dell'uomo.
Il riferimento ai primi capitoli della Genesi è particolarmente importante; ogni volta che il testo stabilisce un confronto di questo tipo ci sembra che il lettore non debba lasciarlo cadere, anche se non sempre avremo la possibilità di rilevarlo.
Più si fa puntuale e penetrante il confronto con la storia dei primordi, più si illumina il mistero pasquale cui tutto converge e più si illumina di riflesso il mistero dell'uomo: creatura, peccatore, salvato per puro dono.
Giuseppe è paragonato ad Adamo, che nudo non si vergognava (Gn 2,25), perché prima del peccato la sua nudità di creatura, priva per sé di essere e di dignità, era ricoperta dal manto della gloria di Dio, dell'amicizia con Lui, della consacrazione a Lui, dell'innocenza.
Dunque, tra tutte le figure del Signore Gesù, la Chiesa considera con particolare attenzione Giuseppe, perché vede in lui il tipo del nuovo Adamo, del corpo spirituale, della carne gloriosa, che sta per risorgere dal sepolcro del Cristo, inaugurando la natura nuova dell'uomo redento.
Giuseppe sta in mezzo, tra il primo Adamo peccatore, denudato della gloria e coperto di vergogna, e il nuovo Adamo rivestito di gloria e di incorruttibilità (1 Cor 15,45).
Egli è il segno profetico di quella libertà dalle passioni e di quella vita da figli di Dio perché figli della resurrezione (Lc 20,36), che la passione immacolata e la risurrezione gloriosa dell'Unigenito Figlio hanno inaugurato per noi" 63).

Grande e Santo Martedì: La parabola delle 10 vergini

I primi tre giorni della settimana santa sono caratterizzati ciascuno dal loro tema proprio, ben definito dal titolo e dalla memoria, ma ancor più da un tema comune dominante: le nozze di Dio con l'umanità.
E' lo stesso tema della domenica precedente. Ma all'ingresso trionfale in Gerusalemme lo Sposo appare nella gloria, misteriosa e tutta diversa da qualunque grandezza mondana, di un momento profetico, che è come il preannuncio e il sacramento del suo ritorno glorioso e delle nozze pienamente consumate; ora invece la liturgia lo contempla mentre avanza per il sacrificio, per celebrare l'unione con la nuova Sion nel mistero pasquale della sua morte e della sua resurrezione.
Il nuovo Adamo viene in Sion per subire le umiliazioni, i tormenti, la morte e infine per addormentarsi sulla croce nella sua morte vivificante.
In questi tre giorni il tono delle celebrazioni è dato da due tropari: Idhù o Nymphìos érchete
: Ecco lo sposo viene; e l'exapostilàrion: Ton Nymphona su vlepo: Vedo il tuo Talamo adorno.
L'Icona canonica che dovrebbe essere esposta e venerata è quella del Cristo morto ma ritto nel sepolcro, dormiente il suo dolce sonno, sonno datore di vita come lo definiscono i S. Padri, col capo inchinato verso il suo costato trafitto da cui viene generata la nuova Eva: la Chiesa.
Ecco lo sposo che viene nella notte della condizione umana. Beato quel servo che lo saprà riconoscere nel volto del bisognoso: affamato, assetato, nudo, forestiero, malato, carcerato.
Lo sposo viene a riscattare quest'uomo e a illuminarlo con la sua luce. E' lo sposo paziente che alla fine si rivelerà giudice. Dinanzi a lui tutto sarà svelato e noi giudicheremo, senza pietà, noi stessi specchiandoci in Lui, nelle sue piaghe. Infatti la causa delle sue piaghe sono stati i nostri peccati (Is).
E' lo sposo che ti indica che vuole sposarti e che ti indica anche il talamo dove tu devi consumare le sue nozze con lui: la croce, che domina alle sue spalle.
L'invito evangelico alla vigilanza, sul quale ritornano con tanta insistenza gli uffici della settimana santa non é una virtù morale, é un modo di essere del cristiano. Il cristiano é colui che vigila anche se dorme.
E' questo l'insegnamento che questa sera la liturgia ci pone dinnanzi con la parabola delle dieci vergini.
Ieri ci ha fatto considerare il fatto del fico maledetto e seccato e la figura del patriarca Giuseppe.
Nel fico maledetto la liturgia ci fa vedere la fine del vecchio Israele che non ha conosciuto il tempo in cui é stato visitato da Dio, ma possiamo anche scorgere la nostra situazione di sterilità che tanta pena fa a Colui che vuole farci fruttificare ma noi non glielo permettiamo.
Gesù viene a cercare frutti dal fico perché ha fame; questa fame di Dio é un mistero profondo, che non può essere sorvolato. Gesù ha fame della salvezza di tutti, spiega Andrea di Creta nel Canone dell'apodhipnon di domenica sera. Anche S. Massimo il Confessore dà la stessa interpretazione nella sue opere: le Centurie Teologiche: "
il Dio che brama la salvezza di tutti gli uomini ed ha fame della loro deificazione, fa inaridire la loro presunzione come il fico infecondo".
Infatti la maledizione di Gesù colpisce proprio la pretesa dell'uomo di appropriarsi dei doni di Dio.
Lo sposo si avvicina alla sua sposa e le chiede i frutti del suo amore, ma ella isterilita dalla vanità della vita non sa altro che dargli vanità, stupidità, apparenza, foglie in altre parole.
Nella prospettiva ancora dominante della venuta dello sposo il martedì considera la parabola delle dieci vergini, che é l'oggetto principale della memoria del giorno, ma completandola e interpretandola alla luce degli interi capitoli 24 e 25 del vangelo di Matteo e dei misteri pasquali, che incominciano a compiersi, e dei quali il collegamento con i capitoli evangelici della fine e del giudizio accentua il carattere ultimo e ultimativo.
E' ovvio in questo contesto il particolare rilievo dato al tema della vigilanza e della negligenza. Se la vigilanza cristiana, come abbiamo detto, si qualifica soprattutto nell'attesa del ritorno del Signore, in rapporto a lui, alla sua persona, al suo mistero; per contro la negligenza assume una gravità che si ingrandisce associata all'oblio litigi e all'ignoranza "àgnia".
Queste tre passioni costituiscono una trilogia terribile e sono fonti di infinite altre.
Il loro primo effetto consiste di fatto nel separare l'uomo da Dio e quindi nell'esporlo ad essere facile preda di qualunque attacco del nemico.
La visione biblica della vita, che i Padri e la liturgia hanno ereditato, é una visione di lotta: l'uomo é posto continuamente di fronte ad una scelta radicale tra Dio e il demonio, tra Dio e io nulla, scelta ami risolta su questa terra in modo definitivo. La negligenza, la rathimia, si pone come un'alternativa illusoria a questa scelta, allenta la tensione e il combattimento e porta inevitabilmente alla rovina.
Così é accaduto ai progenitori nel paradiso. L'ordine di Dio allora come ora é quello di stare in guardia, vigilare, combattere. I Progenitori non hanno combattuto e il demonio li ha vinti.
La liturgia ci ricorda che ora é il tempo della lotta, che l'olio delle lampade si deve acquistare sulla terra, perché poi, al tempo delle retribuzioni, non potremo più andarne in cerca.
Ripetendo un'idea forte della liturgia e del pensiero patristico, il teologo Nicola Cavasilas, insiste nell'affermare che l'officina in cui si fabbrica la vita in Cristo e la beatitudine futura é la vita presente e che di là non potremo vivere di questa vita, se fin d'ora non avremo cominciato a gustarla.

Grande e Santo Mercoledì: La Chiesa "Casta Meretrice

"Oggi i divinissimi Padri, stabilirono che si facesse memoria della donna peccatrice che unse il Signore con il mìron, perché‚ questo avvenne poco prima della passione salvifica".
Così si esprime la memoria del giorno letta dopo il ricordo del santo del giorno.
La nostra liturgia fa memoria dell'unzione di Betania perché‚ vede, in quella unzione, prefigurata l'unzione che il Signore riceverà il giorno della sua sepoltura.
In effetti l'unzione di Betania fu una unzione. Lungo il suo ministero terreno, Gesù ha accettato altre unzioni con profumi. Era un'usanza ebraica, di cortesia, ungere l'ospite.
I nostri testi liturgici attingono a tutti e quattro i Vangeli senza toccare il problema dell'identità della donna o delle donne che unsero il Signore. Criticamente possiamo dire che un'unzione fu fatta, come narra Giovanni, da Maria, sorella di Lazzaro e di Marta che nei Vangeli di Matteo (che sarà letto domani) e di Marco é rimasta anonima. Mentre un'altra unzione fu fatta da una prostituta nella casa di Simone il lebbroso come ci narra Luca al cap.7,36-50.
La liturgia assume in blocco tutti e quattro i racconti considerando un solo mistero: quello della donna caduta in una moltitudine di peccati che ritrova in Cristo la dignità che aveva perduta. La ritrova con le sue lacrime e il suo pentimento. Si tratta di un mistero che deve essere annunziato fino alla fine del mondo.
Ancora una volta si é cantato il troparion: Ecco lo sposo giunge nel cuore della notte. Si Cristo giunge nella notte del peccato della donna prostituta: "
ohimé -canta Cassianì nel suo poema- per me é notte, tenebra peccaminosa senza luce di luna...". E' proprio in questa disperazione della donna, che rappresenta tutta l'umanità peccatrice e ogni singolo fedele "infedele" all'amore di Cristo, che lui, Gesù sposo, viene e salva, viene e riveste dell'abito nuziale, come abbiamo cantato nell'exapostilarion, la sposa infedele ed adultera che si é prostituita in ogni angolo delle strade, come dicono chiaramente i profeti nei loro rimproveri contro il popolo di Israele.
Gesù non disprezza nessuno, egli accoglie perché‚ ama, e amando ridona la speranza a coloro che a lui si accostano. E il suo amore é più forte del peccato e dell'infedeltà della sposa; il suo amore infine ricrea nella sposa addirittura l'innocenza e la fedeltà.
Lo Sposo é venuto a lavare la Sposa nel suo sangue, a ridarle giovinezza e bellezza a colei che era abbruttita dai peccati, a colei che, come cantano i testi poetici, emanava cattivo odore, puzzava di peccato:
" La meretrice si avvicinò a te, misericordioso, versando sui tuoi piedi unguento con le lacrime e, al tuo comando, viene liberata dal cattivo odore dei suoi peccati".
Cristo, ricordiamolo l'Unto del Padre, é il Miron del Cantico, é lui che ci profuma col suo profumo, sicché‚ noi unti di spirito santo dobbiamo essere nel mondo il buon profumo di Cristo, come afferma s. Paolo.
"Beate le mani, i capelli e le labbra della prostituta diventata casta" afferma s. Andrea di Creta nel Canone dell'apodhipnon. Beata perché‚ ha toccato l'agnello di Dio che le ha tolto in vista del sangue e dell'acqua del suo costato ferito i suoi peccati.
La donna meretrice - dicono i testi nostri - ( nell'Ikos), improvvisamente appare casta (ex‚fnis sòfronò fthi). Usando queste tre parole il compositore del testo ha voluto esprimere la subitanea e radicale trasformazione della donna che, a lui poeta, sembra una apparizione: una creatura nuova di bellezza incontaminata.
Ma se da una parte abbiamo una creatura che ritrova il senso della vita, dall'altra se ne intravede un'altra che perde il senso della sua esistenza.
Da una parte una creatura che viene liberata dalla notte perché‚ finalmente, dopo tante delusioni e false strade, trova la luce, dall'altra una creatura che ha vissuto con la luce senza averne saputo apprezzare il significato e la bellezza. Una si incammina verso il giorno, l'altro sprofonda nelle tenebre: Giuda.
"O sventurato Giuda! Vedeva la peccatrice baciare i piedi del Signore, e meditava con inganno il bacio del tradimento. Essa scioglieva le sue trecce, questi si legava con la sua passione, offrendo, invece dell'unguento profumato, la sua maleodorante malvagità. L'invidia non sa scegliere ciò che veramente giova. O triste sventura di Giuda, libera le nostre anime, o Dio, da una simile sorte".
Ma di Giuda, a Dio piacendo parleremo domani con più calma. Per ora completiamo il discorso sulla peccatrice. Cerchiamo di immaginare la scena. Una sala di banchetto di una certa raffinatezza, uomini sdraiati su comodi sedili che mangiano e ascoltano il Signore con un po’ di quell'aria che sa di faceto e di perbenismo.
Entra una donna, non guarda in faccia nessuno, lei é abituata al disprezzo, lei la donna di tutti!
Entra nella sala, forse avrà cercato cogli occhi l'Uomo, l' oggetto del suo amore, (e negli eni abbiamo cantato: ama colei che ora ti ama), si rannicchia ai suoi piedi, non le importa più di nessuno, lei ha trovato colui che cercava, e inizia a piangere e colle lacrime lava quei piedi, glieli asciuga coi suoi lunghi capelli, glieli bacia e li unge di profumo, buono, prezioso. Quei piedi immacolati di cui Eva nel Paradiso a sera percepì il suono dei passi e, per timore, si nascose. No, lei, la prostituta non si nasconde più, deve proclamare con la sua gestualità silenziosa le grandi opere che Dio in lei ha compiuto:
"Si compie la liberazione della donna convertita, in virtù del suo profluvio di lacrime e della misericordia del Salvatore. Purificata, nel pianto, per mezzo della confessione, non si vergogna ed esclama: 'Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, ed esaltatelo nei secoli!".
Gesù ha saputo far rinascere l'amore in questa donna di strada perché‚ non le ha chiesto qualcosa come hanno fatto gli altri. Ma Gesù le ha dato qualcosa: il perdono gratuito che é amore, comprensione, misericordia.
Questo è lo Sposo della Chiesa, che la nostra liturgia bizantina, in questi tre giorni ci ha fatto contemplare e meditare. Bisogna che questa meditazione si trasformi in vita vissuta. Bisogna fare esperienza di Dio, di questo nostro Dio che ha fame della nostra santificazione, del nostro Dio che ci colma le lampade di ogni virtù, del nostro Dio, infine, che ci perdona perché‚ il suo amore é eterno e non vuole la morte eterna di nessuno, ma che ci convertiamo e viviamo trasformati, come la peccatrice che subito, avendo intuito la divinità
del Cristo capisce che non c'è altro nome che può salvarla, né altro medico che può guarirla, poiché‚ dalle sue piaghe, lei allora come noi oggi, tutti siamo stati guariti, a Lui la gloria e l'onore nei secoli dei secoli. Amen.

Grande e Santo Giovedì: Il dono più grande: l'Eucarestia e il più grande rifiuto: il tradimento di Giuda.

I divini Padri, che hanno disposto bene ogni cosa,avendo ricevuto questa tradizione dai divini apostoli e santi evangeli, ci hanno tramandato di celebrare in questo giorno quattro misteri: il sacro lavacro (lavanda dei piedi),la mistica cena (cioé la consegna dei tremendi Misteri dati a noi), la preghiera misteriosa di Gesù nell'orto e il tradimento.
La liturgia dunque pone oggi alla nostra considerazione quattro temi che troveremo ben sviluppati lungo tutta l'ufficiatura di questa sera e di domani.
Il nuovo tropario che sostituisce quello dello sposo é: Ote i endoxi mathité (Quando i gloriosi discepoli) che dà il tono alla celebrazione.
Si tratta di un testo molto bello e teologicamente assai ricco. Inizia col fare la mistagogia della lavanda dei piedi. L'autore accosta il niptir, cioè la bacinella dell'acqua, con la illuminazione. Nella tradizione orientale il battesimo viene definito illuminazione e nel linguaggio mistagogico illuminare equivale a conferire l'iniziazione cristiana a qualcuno cioè dare i tre sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell'Eucaristia. Dobbiamo allora intendere che il Signore Gesù in quella notte santissima ha battezzato i suoi discepoli prima di renderli partecipi del suo corpo e del suo sangue: dice infatti a Pietro "
se non ti lavo non puoi aver parte con me" (Gv 13,8).
E' una interpretazione che si basa sulla dottrina dei santi Padri e soprattutto dall'andamento liturgico del vangelo di Giovanni.
E' a questo punto che la scena cambia perché il modo di vedere dei personaggi è cambiato. Mentre i discepoli sono illuminati dalla luce battesimale, dalla grazia eucaristica e dall'esempio dell'umiliazione del Signore, Giuda che ha ricevuto gli stessi doni, precipita nella notte del peccato, del tradimento e infine della disperazione. "
Uscito fuori,- annota Giovanni - era notte".
Giuda non riconosce, anzi si rifiuta di riconoscere il Messia in quel Gesù. Sa bene chi è Gesù, ma la sua superbia intellettuale si ribella dinnanzi al messianismo umile proposto dal Cristo. Giuda non vende Gesù per amore dei soldi, ma c'era un altro amore che lo spingeva ad operare, era l'amore delle sue opinioni, era l'amore per i suoi piani. Gesù doveva piegarsi ai suoi piani, e l'unico modo per poter spingere il Signore a manifestarsi come il messia potente e vindice, era quello di consegnarlo nelle mani dei capi. Solo così Gesù sarebbe apparso per quello che in realtà era: il liberatore terreno di Israele.
Attenzione: Giuda non è uno stupido o uno sprovveduto qualsiasi, egli è l'immagine di chi vuol strumentalizzare l'altro per i suoi piani. Gesù non cade in questa, che fu una tentazione all'inizio della vita pubblica.
Satana infatti gli propose di buttarsi dal pinnacolo del tempio affinché tutti potessero vedere la potenza di Dio che l'avrebbe soccorso. Non essendo riuscito, si ritira per ritornare all'ora stabilita. Oggi Giuda gli ripropone la stessa tentazione: lo dà nelle mani dei pagani perché finalmente si sveli al mondo e Giuda abbia di che vantarsi: era stato lui che aveva costretto il Kirios a venire alla luce!
Quando Gesù non interviene e si lascia catturare, Giuda capisce che ha perduto la guerra contro il suo intellettualismo, contro sé stesso. E' coerente fino in fondo nella sua superbia, si rifiuta di chiedere perdono, come Pietro, e preferisce impiccarsi. Che tristezza: non ha saputo riconoscere il mistero di Gesù. Di fronte all'innocente, lui la cui vita è stata sprecata dietro l'ambizione e il denaro, non può umiliarsi nel chiedere perdono. Non può accettare di piangere. Era conseguenziale: ormai da tempo, lui uno dei dodici, non seguiva più il Signore, era rimasto nelle tenebre.
Lo canteremo tante volte domani sera: Giuda non comprese, Giuda non volle comprendere!
"Beato, invece, chi ha intelligenza del povero" dice il salmo 40 secondo la versione dei Settanta, che sarà cantato come prokimeno domani ai vespri. Chi è questo Povero, anzi questo Ricco che per noi diviene povero come dice S. Paolo nella 2a ai Cor 8,9 ? Beato che comprende il mistero della sua povertà e non se ne scandalizza. Il mistero della sua povertà nella sua nascita, nella sua vita a Nazareth, nella sua vita di predicatore, nella santa cena in cui si dà a noi con poveri elementi: pane e vino. Il mistero della sua povertà sulla croce e nel suo sepolcro. Solo chi comprende questa povertà di Gesù, potrà gustare la ricchezza del Regno, come canteremo domenica prossima. Solo chi capisce questa povertà di Gesù, che la Chiesa in questi santi giorni pone dinnanzi alla ricchezza della nostra superbia, potrà saziarsi di essere suo seguace. Solo chi comprende la povertà dello Sposo che viene nella notte delle nostre povertà, potrà gloriarsi della croce di Cristo. Solo chi comprende il mistero di questa povertà di Gesù potrà desiderare di essere povero come lui. Solo chi comprende il mistero di questa povertà potrà desiderare di soffrire con lui. O mistero della povertà del Signore, tu sei l'ingresso verso la salvezza! O mistero della povertà del nostro Dio, tu ci apri la porta verso tutti i tesori!
Nella tua ineffabile misericordia, o Cristo Dio nostro, davanti a cui dovremmo solo tacere e adorare, abbi pietà di noi e salvaci. Amen

La gioia pasquale

L'essenza del cristianesimo è credere nella morte e resurrezione del Signore Gesù Cristo, fondamento di tutto l'agire del credente.
In Quaresima, tempo a giusto titolo chiamato quadragesimale sacramentum, dove "sacramento" equivale in pratica a "strumento di salvezza", abbiamo vissuto la morte del Signore attraverso la pratica penitenziale. Nel tempo pasquale, tempo definito come: resurrectionale sacramentum, viviamo nella gioia la resurrezione del Signore, celebrando la sua misericordia perché con la resurrezione è venuta la riconciliazione a tutto il mondo.
Gesù risorto è il Signore della storia nostra, egli sta al centro della nostra sorte eterna e temporanea, egli è il fulcro di tutta la nostra vita, per cui la celebrazione del Signore è sempre la celebrazione di quello che lo Spirito Santo compie nella vita del credente: se è di Cristo, dunque è anche nostra.
Celebrare Cristo risorto significa celebrare l'uomo risorto, l'uomo battezzato, crismato e comunicato, l'uomo cioè unito alla sorte di Cristo.
Celebrare Cristo risorto significa per il battezzato riscoprire il proprio battesimo e le virtualità di esso.
Divideremo dunque questa meditazione in due parti: la prima ci introdurrà dentro il mistero della resurrezione, cioè dentro una caratteristica del mistero pasquale: la gioia della resurrezione, la seconda invece dentro il mistero della nostra unione col Cristo avvenuta nel battesimo-cresima-eucaristia, cioè nei sacramenti della iniziazione cristiana.

I Parte

La gioia biblica, della resurrezione, anche "dentro le tribolazioni", quasi non fa parte della predicazione cristiana.
Eppure è il culmine immediato della resurrezione del Signore. Così era sentito dalla Comunità primitiva. Così da tutti gli autore del N.T.
Esistono strani ricorsi. In effetti, la predicazione della gioia già si scontrava al tempo di Paolo con un mondo che è poco caratterizzare con triste. Come ai tempi nostri. L'eccellente livello culturale nell'impero romano, così cosmopolita, il saldo ordinamento giuridico della società imposto dai Romani, i fervidi e quasi febbrili culti misterici ed orientali, le filosofie popolari che insegnavano sia pure a pagamento i maestri itineranti, oltre le scuole classiche, gli operatori di prodigi e di miracoli che pullulavano, insomma tutte queste proclamate "vie alla salvezza"; ed inoltre, la complessa vicenda storica stessa al tempo del N.T. e di Paolo, la cosiddetta pax romana, che si rivelò piuttosto come una non-guerra momentanea, tutti questi fattori ed altri, promettevano tanto, ma se suscitavano qualche speranza presto delusa, non provocavano certezza, né gioia.
Anche quando personalità eccellenti, come anche i sollevatori politici, promettevano speranza e felicità future, mai parlavano di gioia, non era nelle loro prospettive. Il mondo antico, eppure, aveva un ricco vocabolario della gioia; tuttavia non aveva l'idea, i contenuti ed i motivi per una gioia vera e perenne.
Il nostro mondo è stranamente simile a quello di Paolo. Le ideologie politiche e le teorie spicciole, il pensiero, le scienze, l'arte e la cultura in genere non conoscono la gioia, non la nominano.
Si parla ancora di progresso, di sviluppo, di felicità promesse, ma non si conosce e non si parla mai di gioia. E paradossalmente proprio su questo sembra essersi attenuta da secoli la stessa predicazione cristiana. La quale pure ha come centro "la gioia della Resurrezione".
Ha forse San Paolo inventato qualche cosa? Ha solo, contro corrente, predicato la gioia promessa dal Signore, contro ogni evidenza, già nella sua vita storica (cfr Gv 16,20-22), e gioia da vivere non in un futuro più o meno probabile, ma già nell'esistenza terrena redenta.
Il Risorto stesso ha provocato la gioia dal primo istante della sua resurrezione, a cominciare dalle donne fedeli al sepolcro vuoto, la "gioia grande" (Mt 28,8), completata da quella dei discepoli impauriti, "nel vedere il Signore" (Gv 20,20b). Proprio qui Paolo irrompe con questo carico di grazia realmente esplodente, nel mondo pagano. Il quale giocava, sì, ma non si divertiva.
Paolo porta semplicemente l'annuncio dell'Evangèlion, la novella gioiosa secondo l'etimologia precisa, che era la predicazione apostolica comune, prima e dopo Paolo.
La gioia di Paolo, predicata con tanta insistenza, è anzitutto e si direbbe esclusivamente, in Cristo risorto e nello Spirito Santo. Certo il mondo antico, privo come era di coscienza storica e dunque di proiezione reale nel futuro vivibile, non poteva avere motivi di gioia autentica. I fedeli invece hanno contenuti e motivi, nel Kyrios, il Signore, per cui si deve esultare santamente, e se non vi fosse compreso, di nuovo Paolo lo ripete, occorre gioire sempre nel Signore (Fil 4,4). E nel Signore gioisce egli stesso, pur tra le immani tribolazioni apostoliche, per le buone condizioni spirituali di questa comunità prediletta.
Paolo sa tuttavia che questa gioia non è opera umana. Essa al contrario, scaturendo dalla resurrezione, è un preciso, inaudito dono dello Spirito Santo. Che precisamente allieta anche nella tribolazione, anzi a causa della tribolazione; la parola stessa è ricevuta nella thlìpsi, la tribolazione sia dell'apostolo, sia dei suoi fedeli (1Ts 1,6), tema così caro a Paolo. Questa grazia divina che è la gioia è quindi un dono operato ed operante, sia pure nelle difficoltà del momento. Essa si configura anche come il Regno di Dio, i cui contenuti, benché non tutti, sono prima di ogni altra realtà "giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rom 14,17).
La gioia così è il frutto dello Spirito Santo, frutto unico ed indivisibile nella mirabile triade iniziale di un altrettanto mirabile serie di tre triadi: "amore-gioia-pace / pazienza-benevolenza-bontà / fedeltà-mitezza-dominio di sé" (Gal 5,22,23).
Tale tradizione della gioia pasquale proseguiva inalterata negli echi che possiamo ascoltare dagli atti dei martiri, i quali si avviavano a rendere testimonianza, cioè che Cristo era risorto, e dunque vivente, cantando salmi ed inni. Spettacolo incomprensibile ed irritante per i loro carnefici e per il mondo a cui i martire erano offerti come supremo spettacolo. Nei martiri questo non era esaltazione fanatica, non era il gusto orrido della sofferenza e della morte, che invece evitavano per quanto potevano. Era lucida e cosciente esultanza perché erano stati resi degni di testimoniare la loro fede inconcussa, e perché vedevano il Regno della gioia senza tramonto aprirsi gioiosamente per loro.
Annunciare sempre ed instancabilmente Cristo risorto, come hanno fatto i martiri, e la sua gioia, ad un mondo triste come il nostro, che ancora gioca ma non si diverte affatto, è offrire nella suprema carità, per il bene esclusivo degli uomini nostri fratelli, i contenuti veri, autentici, reali, specifici della vita cristiana. Degna quindi di essere vissuta, nella Parola della gioia trasformante.
Nella liturgia bizantina la notte di pasqua è tutta incentrata sulla gioia. Gli inni che ci cantano durante la veglia, composti da S. Giovanni Damasceno, sono cantici di gioia.
"E' il giorno della resurrezione! Risplendiamo di luce, o popoli. E' Pasqua, la Pasqua del Signore, Dio nostro, che ha trasferiti dalla morte alla vita e dalla terra al cielo, noi che cantiamo l'inno della vittoria.
"Esultino, in modo degno, i cieli, si allieti la terra e tutto il mondo, visibile ed invisibile. Tripudi: Cristo, gioia eterna, è risorto.
"Le donne ripiene di saggezza divina vennero sollecite da te con unguenti; ma esultanti adorarono Dio vivente, quello stesso che tra le lacrime cercavano morto, e annunziarono ai tuoi discepoli con gioia, o Cristo, la mistica Pasqua.
"O tua voce divina, voce amica, voce dolcissima! Promettesti di rimanere con noi, o Cristo, fino alla fine dei secoli. Noi fedeli custodiamo con gioia questa promessa come  áncora di salvezza.
"Oggi tutto il creato si rallegra e gioisce, poiché Cristo è risorto e l'Ade è stato spogliato.
"Pasqua soave, Pasqua del Signore, Pasqua! Una Pasqua augustissima è sorta per noi; Pasqua!
Abbracciamoci gli uni gli altri nella gioia. O Pasqua, liberazione dalla tristezza, poiché Cristo risplendendo dal sepolcro, come da una camera nuziale, ha colmato di gioia le donne, dicendo: " Portatene l'annuncio agli Apostoli ".

II Parte

La vita del battezzato in Cristo risorto.
Abbiamo detto che il Cristiano battezzato-crismato e comunicato, partecipa della vita di Cristo in quanto è stato inserito in lui, unito a lui e nutrito di lui.
La parola bàptisma in generale, significa infatti immersione, immersione nell'elemento acqua simbolo di morte e di vita, immersione in Cristo che uccide il peccato e che dà vita nuova, immersione nella sua divinità, nella sua carne, nella sua sorte, ecc.
Il Padre ha disposto dall'eternità l'invio del Figlio e dello Spirito, affinché nella sua indicibile economia di salvezza e di divinizzazione questo suo Figlio Unico, nello Spirito Santo, si il Primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29).
Qui siamo rinviati all'A.T., che in questo è categorico. Il Signore Unico, il Dio vivente e buono, ha creato una volta e per sempre, senza pentimento, un'unica sua immagine e somiglianza, o icona (Gn 1,26-27). E' l'unica origine di tutti gli uomini. La sorte che divinamente è assegnata a tutti gli uomini è una e medesima: contemplare in eterno, in indicibile dialogo, il volto divino di bontà trasformante (cfr 1 Gv 3,1-2), che è la divinizzazione. E se dopo il peccato di Adamo il peccato prolifera e si comunica a tutti gli uomini come un'inarrestabile pestilenza, il disegno divino, che sembra frustrato alla radice, non si arresta.
La Sapienza divina riassume tutto e tutti dapprima con la vocazione di Abramo e poi con quella di Gesù di Nazareth, Dio fatto uomo, che ha assunto la condizione peccaminosa e mortale di tutti gli uomini, escluso il peccato.
Cristo Signore, l'icona perfetta del Padre (Col 1,15), deve per mezzo del suo spirito recuperare l'icona perfetta agli uomini, distruggendo il peccato fonte dell'alienazione dell'uomo da se stesso, dal prossimo, dal creato e da Dio. Cristo come Icona ha recuperato nella sua sfera personale questa armonia con se stesso, col prossimo, col creato e con Dio. Così il disegno di Dio che ha il suo inizio in Cristo, troverà il suo compimento quando sarà accettato dagli uomini, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, una immensa folla che nessuno potrà mai contare (cfr Ap 7,1-17).
Tutto questo non è altro se non l'opera efficace dell'iniziazione cristiana.
A questo proposito, S. Gregorio il Teologo così si esprime:
"L'illuminazione (il battesimo) è splendore delle anime, mutamento della vita, interrogazione della coscienza a Dio (1Pt 3,21). L'illuminazione è aiuto della nostra debolezza.
L'illuminazione è rigetto della carne e sequela dello Spirito, comunione del Verbo, correzione dell'uomo plasmato, diluvio del peccato, partecipazione della luce, dileguamento della tenebra. L'illuminazione è veicolo a Dio, pellegrinaggio di Cristo, sostegno della fede, perfezionamento dell'intelletto, chiave del regno dei cieli, mutazione della vita, espulsione della schiavitù, scioglimento dei vincoli, mutazione della composizione dell'uomo.
L'illuminazione - che si deve dire di più? -, il più bello dei doni di Dio e il più magnifico... Essa è l'icona della beatitudine di lassù".
E S. Giovanni Crisostomo nell'enumerare le prerogative del battesimo dice che esse sono dieci, e che dunque il battesimo non è dato non solo per la remissione dei peccati.
Dice il santo:
"Quelli che fino a ieri erano schiavi, ora col battesimo sono liberi e cittadini della Chiesa... Non sono infatti soltanto liberi, ma anche santi; non solo santi, ma anche giusti; non solo giusti, ma anche figli; non solo figli, ma anche eredi; non solo eredi, ma anche fratelli di Cristo; non solo fratelli di Cristo, ma pure coeredi; non solo coeredi, ma pure membra; non solo membra, ma pure tempio; non solo tempio; ma pure strumenti dello Spirito".
Appare evidente ed innegabile con quale urgenza bisogna che ci rendiamo conto e facciamo prendere coscienza anche agli altri della dignità alla quale tutti i battezzati sono stati innalzati grazie all'esperienza storica del battesimo che ha segnato per sempre la loro vita, unico fatto vitale vero, di continuo celebrato nei Misteri, in via di attuazione eterna vivendo la fede, e rispondendo al Signore ricco di doni con la carità verso lui ed i fratelli.
La vita dello spirito in noi è la graduale presa di coscienza della grazia battesimale, nel senso di una coscienza che trasforma tutto l'uomo. Il ritmo battesimale di morte e resurrezione illumina i momenti iniziatici del nostro destino. Quando tutto sembra perduto, la grazia battesimale, se noi le prestiamo attenzione, può trasformare una situazione di morte in occasione di resurrezione, una via senza uscita in un necessario innalzamento di livello.
Bisogna imparare, ed è questo il senso dell'ascesi, ad aggirare gli ostacoli, a strappare le pelli morte, per lasciare affiorare in sé la stessa vita di Cristo, il suo grande respiro di resurrezione. L'attimo (= le occasioni positive o negative della vita) deve diventare battesimale, attimo di angoscia e di morte se voglio trattenerlo, e constatarne così l'inesistenza, attimo di resurrezione se lo ricevo umilmente, come un momento di grazia, attimo in cui dimostro la mia fedeltà al mio Signore, abbandonandomi senza indugi a Cristo vincitore della tentazione, del peccato e della morte.
L'essere battezzati implica anche l'essere crismati. La cresima, sacramento più recente nella storia della Chiesa latina, completa il battesimo (col quale nelle Chiese di Oriente costituisce un unico rito), accentuando il suo carattere di battesimo nello Spirito. In Cristo, al quale si è incorporati, si riceve la forza dello Spirito, la forza di realizzare in modo unico, personale, il nuovo essere ricevuto nel battesimo. Ma non bisogna troppo separare i due sacramenti. Infatti l'umanità di Cristo è impregnata delle energie dello Spirito.
S. Cirillo di Gerusalemme nella III delle sue catechesi mistagogiche, parlando della cresima, dice questo:
"Cristo è stato unto con olio di letizia, cioè con lo Spirito Santo. Si chiama così lo Spirito perché è fonte di gioia. E voi, voi avete ricevuto l'unzione sacramentale divenendo così compagni e partecipi di Cristo".
Così la vita dello Spirito sarà la graduale presa di coscienza della grazia battesimale, nel senso di una coscienza che trasforma tutto l'uomo.
S. Agostino parlando ai neofiti disse:
"Quando avete avuto fatto su di voi l'esorcismo pre-battesimale, voi siete stati macinati. Quando, poi, siete discesi nel fonte battesimale, siete stati impastati, quando, infine, siete usciti dal fonte e su di voi è stato invocato lo Spirito, siete stati cotti, per diventare pane eucaristico gradito a Dio".
Il cristiano è, con Cristo, a sua volta: eucaristia, in quanto si nutre del cibo che mette nelle anime nostre il germe della vita immortale. Questa linfa immortale, penetrando nel battezzato lo trasforma in immortale, noi diventiamo in questo caso ciò che mangiamo e non viceversa come avviene per i cibi materiali che diventano parte di noi stessi.
"Io sono il pane vivo che discende dal cielo. Chi mangia questo pane vivrà in eterno. E il pane che io darò è il mio corpo, per la vita del mondo... Amen, Amen, io vi dico, se voi non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita"(Gv 6,51-54).
I Padri non hanno mai smesso di rivisitare codeste stupefacenti affermazioni di Gesù, Gesù è il pane del cielo, il pane vivo; il risorto si dà pienamente a noi nell'Eucaristia, che è perciò un nutrimento di resurrezione.
Gesù è pane vivo, vivificante, perché in lui la vita divina pervade la terra e l'umanità. L'Eucaristia è così potenza realissima di resurrezione, fermento di immortalità, dice Ignazio di Antiochia. Potenza oggettiva, che esige certamente di essere accolta con fede, di divenire trasfusione di energia divina in un incontro, ma che non dipende dal nostro atteggiamento. Quest'ultimo non interverrà se non per favorire o ostacolare, la diffusione del fuoco eucaristico nella nostra anima e nel nostro corpo.
Il mondo è stato creato per diventare eucaristia attraverso l'offerta degli uomini. Ed è proprio ciò che Cristo, Adamo definitivo, ha realizzato. Con la sua morte e la sua resurrezione, ha fatto passare l'universo nella gioia e nella gloria. Nell'Eucaristia ci viene offerto questo modo di essere trasfigurato della creazione, affinché anche noi possiamo unirci a quest'opera di resurrezione.

 

Archimandrita Marco (Don Vincenzo)

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