LA SETTIMANA SANTA
Liturgia Bizantina
Grande e Santo Lunedì: Giuseppe l'ottimo.
La giornata del Santo e Grande Lunedì è dedicata alla commemorazione di un personaggio che immediatamente viene collegato col Cristo sofferente e glorioso. Si tratta del figlio di Giacobbe e Rebecca: Giuseppe (cfr Gn 37-50), che la liturgia designa come l'ottimo hó pánkalos.
La connessione fra Gesù e la persona di Giuseppe è evidente, la vita di Giuseppe è prefigurazione di quella del Cristo: Giuseppe fu venduto agli Egiziani dai fratelli, Gesù fu consegnato nelle mani dei nemici da un suo discepolo.
Giuseppe fu messo in prigione e ne esce coperto di gloria, Gesù viene messo in un sepolcro e ne esce vittorioso sulla morte.
Queste e altre similitudini che analizzeremo, hanno portato la Liturgia e i fedeli a privilegiare la persona del Patriarca ad altri personaggi biblici, che pur avendo la loro importanza nel campo cristologico, non sono stati introdotti nell'ambito liturgico-celebrativo.
Il "caso" di Giuseppe però non è così semplice come può sembrare. Il suo inserimento nella liturgia, o, per meglio dire, la sua non completa estrapolazione, indica che il personaggio è talmente importante da non potersi togliere dalla commemorazione del Santo e Grande Lunedì, o da inserirsi per forza.
A lui sono dedicati solo tre inni in tutto l'ufficio del mattino e alcuni, più numerosi, in quello di compieta.
Storicamente parlando gli inni del mattutino riservati a Giuseppe sono più antichi del resto dell'ufficiatura. A lui, infatti, sono dedicati, oltre alla Memoria, il Kontákion, l'Oíkos e il Doxastikòn degli Ap¢sticha. Il Kontákion antico era un racconto in poesia di una certa lunghezza, e alle volte assumeva il tono di un vero dramma, con i dialoghi fra i vari personaggi.
Oggi giorno il Kontákion, che si legge generalmente dopo la sesta ode del canone del mattutino, è la risultanza di quello che è rimasto degli antichi kontákia: una breve composizione poetica di poche strofe che riassume il contenuto celebrativo della liturgia in corso.
"Alla fine del VII secolo e, soprattutto, nel completo arco dell'VIII, assistiamo a un rinnovato slancio creativo, proveniente dalle regioni della Bibbia, in modo particolare dalla Palestina, per opera di semiti ellenizzati più nella lingua che nella struttura mentale.
In realtà costoro s'inseriscono piuttosto nel solco della tradizione siriaca e nel giudeo-cristianesimo.
I Kontákia cedono il posto a nuove "composizioni", meno colorite e d'un lirismo teologico molto più contenuto, ai Canoni appunto.
Come testimonianze erratiche delle ampie composizioni precedenti, sopravvivono solamente, - come sopra abbiamo già detto - tra la sesta e la settima ode di ogni canone, il kontákion iniziale e un oíkos.
Il canone si presenta come un lungo inno liturgico costituito da nove odi le cui strofe s'intercalano tra i versetti delle nove odi bibliche utilizzate tradizionalmente nella liturgia orientale"(53).
Il caso di Giuseppe è dunque il caso di una commemorazione forzata: troppo forti sono i contenuti cristologici perché la liturgia potesse interessarsi solo del fico maledetto dal Signore e seccato, o della passione del Cristo.
Si può dire con certezza che il ricordo di Giuseppe nella liturgia, non è presente a Costantinopoli. Nel Tipikòn della Grande Chiesa (54), non si dice niente a proposito. Anzi le letture della Genesi si leggono fino ai vespri di Lazzaro, e sembra che la parte centrale riguardante la vita, le persecuzioni e la gloria del figlio di Giacobbe, non venissero lette (55).
Ma allora gli inni in quale ambiente liturgico sono stati composti e come sono giunti fino a noi?
Evidentemente ci troviamo dinanzi a un problema che difficilmente potrà trovare soluzione. Quello che però ci interessa è che il ricordo di Giuseppe non è stato cancellato ma conservato con un preciso motivo. Perché?
Olivier Clément nel suo saggio sul pentimento: Il canto delle Lacrime, ha definito i Kontákia e gli Oíkoi: "testimonianze erratiche delle ampie composizioni precedenti"(55).
In verità se si considerano tali composizioni nell'ambito del resto delle altre composizioni poetiche, l'osservazione è esatta: cambia lo stile, la lingua, la poesia, ma nel complesso si armonizzano con l'ufficiatura perché trattano del medesimo tema.
Nel caso di Giuseppe non è così. Si è ricordato sopra che la persona del patriarca biblico non appartiene alla tematica liturgica del santo e grande lunedì. Due infatti sono i temi che la poesia liturgica tratta con abbondanza: il fico maledetto e seccato, e la passione in generale.
Del primo tema troviamo la motivazione nel vangelo che si legge al mattutino (Mt 21,18-43).
Del secondo tema invece abbiamo testimonianze nel già citato Tipikòn della Grande Chiesa.
Al mattutino del lunedì della grande settimana, lì si canta come troparion del salmo 50 il seguente inno: "Tu che sei impassibile per la divinità, ma che per noi hai accettato (di soffrire nella carne), Signore, concedi alle anime nostre di poter celebrare nella pace la festa della tua resurrezione"(57).
Le letture della tritoéktê e del vespro sono quelle che si leggono ancora oggi nella liturgia bizantina e non hanno alcun accenno a Giuseppe.
Lo stesso problema sorge per le altre due memorie, con una particolarità che queste hanno un richiamo nel Vangelo letto ai vespri.
Da tutto questo si può dedurre che la memoria di Giuseppe era presente nella liturgia ma non a Bisanzio, o almeno non nella chiesa patriarcale di Santa Sofia. Forse nelle ufficiatura dei monasteri che, non essendo condizionate dal ritualismo unificante odierno, erano libere di strutturare l'ufficio secondo le loro esigenze e secondo le intuizioni poetiche dei monaci compositori di inni. Forse nella liturgia palestinese di Gerusalemme, o di S. Saba, o forse nelle altre liturgie orientali. Sta di fatto che è stata conservata solo una minima parte del culto liturgico di Giuseppe e che questo non proviene dalla Grande Chiesa di Costantinopoli.
Non si tratta dunque di una testimonianza erratica ma di una vera pietra miliare della spiritualità della Settimana santa e come tale accolta nella liturgia e proposta ai fedeli come esempio da imitare e come profezia del Cristo e del cristiano.
A conferma di ciò abbiamo una omelia molto antica di Asterio di Amasea (410), il quale ricercando le origini tipologiche della redenzione nell'Antico Testamento, ci offre il primo parallelismo tra Giuseppe e Gesù Cristo (58).
L'omelia è impostata su cinque precise tematiche.
La prima tratta della gioia della Chiesa-sposa, perché lo sposo, Cristo, è risorto.
La seconda è un inno alla notte pasquale di alto lirismo poetico.
La terza sulla persona del patriarca Giuseppe, icona di Cristo.
La quarta su Giuseppe, modello per i nuovi cristiani.
La quinta su Giuseppe testimone nell'ultimo giudizio.
E' sorprendente come la terza tematica è ripresa nella sua globalità nell'Ufficiatura del Nymphíos.
Giuseppe è visto come l'anticipatore delle sofferenze del Messia: tutto ciò che è successo al figlio di Giacobbe è ciò che il Signore ha sofferto nella sua passione.
Asterio stesso lo afferma quando dice: "Giuseppe prefigura il Cristo; non ce ne meravigliamo, i testi sono abbastanza chiari. Di Giuseppe è detto: "Giacobbe amava Giuseppe più di tutti i suoi figli"; del Cristo: "Il Padre ama il figlio: gli ha dato potere su tutto". Il Padre fa preparare per Giuseppe una tunica di colore; e il Cristo dice: "La mia anima esulterà nel mio Dio, perché mi ha rivestito di vesti di salvezza, mi ha ricoperto con il manto della giustizia, come uno sposo si cinge il diadema". Di Giuseppe è scritto: "Giuseppe era bello di forme e bello di aspetto"; il profeta dice del Cristo: "Tu sei il più bello dei figli degli uomini". I fratelli hanno disonorato Giuseppe; e i Giudei hanno schernito il Cristo: "Noi non siamo nati da adulterio". Giuseppe è stato inviato ai suoi fratelli come un medico ed è caduto nelle loro trappole come un nemico; il Cristo venuto come pastore misericordioso, si è fato crocifiggere come un ladrone. Giuseppe è stato venduto per venti monete d'oro; il Cristo per trenta d'argento. Uno dei fratelli ha venduto Giuseppe agli Ismaeliti: "Sù, vendiamolo agli Ismaeliti"; uno dei dodici apostoli ha venduto il Cristo agli Israeliti. Là Giuda lo ha fatto vendere; qui Giuda lo ha venduto.
Giuseppe è stato chiuso in un cisterna, il Cristo nella tomba. Le calunnie dell'Egitto hanno gettato Giuseppe nella prigione; le false testimonianze della sinagoga hanno consegnato a Pilato Gesù incatenato. Giuseppe era detenuto insieme a due eunuchi, un coppiere e un panettiere; il Cristo era stato crocifisso con due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.
Giuseppe inviò uno dei due eunuchi al palazzo del re; Il Cristo fa salire uno dei due ladroni nel suo regno: "In verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso". Giuseppe, prigioniero d'Egitto, si tolse i suoi vestiti e fuggì; il Cristo prigioniero della morte uscì dalla tomba, abbandonando il lenzuolo che lo ricopriva. L'Egitto vide le vesti di Giuseppe e non poté trattenerlo; la tomba vide il lenzuolo e restò priva del Signore, poiché non era in suo potere sottometterlo alla sua legge" (59).
Si tratta di una vera e propria meditazione sulla passione del Signore, prefigurata in Giuseppe.
Gli inni riprendono alla lettera le parole di Asterio confermando che la memoria del patriarca era presente nell'antica ufficiatura della Pasqua.
Ancora altre frasi sono degne di nota, poiché le ritroveremo negli inni: "Così voi tutti, che mi avete udito parlare di Giuseppe imitatene la saggezza (sôphrosynê)... Imita la sua castità (katharótês). (L'egiziana)si impadronì della sua tunica, ma non poté togliergli la sua temperanza... Se la padrona non ha potuto piegare lo schiavo sotto il peso del peccato, non lasciarti gettare, tu nuovo battezzato, nella schiavitù di una prostituta e respingi la schiava libertina (la passione), che si avvicina al tuo letto di uomo libero"(60).
E infine, continua Asterio, Giuseppe sarà a fianco di coloro che hanno conservato puro l'abito battesimale (stolê), ma biasimerà tutti quei battezzati che, dopo tutte le grazie ricevute, che lui non ha avuto, perché vissuto prima di Mosè e di Cristo, sono diventati schiavi della schiava, cioè della vita passionale, che invece lui, col solo timore di Dio, è riuscito a vincere (61).
Gli inni e il loro contenuto
a)
Gli inni del MattutinoIl kontákion
"Giacobbe piangeva la perdita di Giuseppe,
ma quel valoroso sedeva sul cocchio
onorato come re. Poiché allora non servì
ai piaceri dell'egiziana, in cambio fu
coperto di gloria da Colui che vede i cuori
degli uomini e distribuisce l'incorruttibile
corona".
L'Oíkos
"Ora aggiungiamo pianto al pianto; con Giacobbe
battendoci il petto, versiamo lacrime su Giuseppe
il casto, degno del nostro canto.
Fu schiavo nel corpo, ma serbò l'anima libera
ed ebbe signoria su tutto l'Egitto;
poiché Dio dà ai suoi servi una incorruttibile
corona".
Il kontákion e l'oíkos fanno riferimento agli episodi della Genesi narrati nei capitoli 37, 39 e 41, per quello che riguarda la sventura di Giuseppe nei rapporti con i suoi fratelli e la fortuna che trovò alla corte del faraone dopo la sua prigionia.
"E' evidente che Giuseppe è figura di Gesù: venduto dai suoi fratelli, trascinato da loro per invidia fino all'orlo della morte, ma esaltato e glorificato da Dio, che ne fa il salvatore del suo popolo e di quanti ricorrono a lui" (62).
Mentre il rimanente dei due inni canta la sua "castità", tema proprio del doxastikòn:
Il Doxastikòn
"Trovando nell'egiziana una seconda Eva,
si studiava il Drago di far cadere Giuseppe
nella lusinga delle sue parole;
ma egli abbandonò la veste e fuggì il peccato
e nudo non si vergognava,
come il Progenitore prima della disubbidienza.
Per le sue preghiere, o Cristo, abbi pietà di noi"
È interessante soffermarci su quest'ultimo inno e su quelli dell’Apódhipnon, perché la tematica della "castità" è più profonda di quello che può sembrare a prima vista.
L’argomento può sembrare il solito tema obsoleto di sempre, ma non è così, perché per castità si deve intendere non tanto la virtù che impone al cristiano l'uso corretto della sessualità, bensì la sôfrosynê che è la capacità dell'uomo di dominare se stesso, nella sua totalità passionale e non solo per le passioni sessuali.
Il tema ritorna negli inni dell'Apódhipnon, che benché più recenti degli inni del Mattutino, si ricollegano molto bene alla tematica della virtù e della mimêsis:
b) Gli inni della Compieta
Ode I
a) "Imitiamo la castità (la sôphrosynê)
di Giuseppe, o fedeli,
riconosciamo colui che ha onorato la natura
spirituale degli uomini,
vivendo anche noi con ogni vigilanza
nel compimento della virtù".
b) "Delineando l'icona del Signore,
Giuseppe fu gettato in una fossa,
e venduto dai suoi fratelli.
Tutto sopporta quell'uomo glorioso
vero tipo del Cristo".
Ode VIII
"Trovando nell'egiziana una nuova Eva,
il patriarca Giuseppe non si lasciò
trascinare ad una azione scellerata,
ma rimase saldo, come il diamante,
contro le passioni, senza divenire
schiavo del peccato".
Ode IX
"Sconosciuta agli impuri la castità
sconosciuta ai giusti l'iniquità.
Il grande Giuseppe sfuggì il peccato
e divenne modello di castità
vera icona di Cristo".
Lasciamo, anche per questo commento, la parola a Maria Gallo che ha saputo con poche parole essere genialmente esaustiva e comprensiva:
"Ci pare tuttavia importante sottolineare altri due elementi che possono sembrare meno ovvi: il confronto con Adamo e l'invito a riconoscere in Giuseppe colui che ha onorato la natura spirituale dell'uomo.
Il riferimento ai primi capitoli della Genesi è particolarmente importante; ogni volta che il testo stabilisce un confronto di questo tipo ci sembra che il lettore non debba lasciarlo cadere, anche se non sempre avremo la possibilità di rilevarlo.
Più si fa puntuale e penetrante il confronto con la storia dei primordi, più si illumina il mistero pasquale cui tutto converge e più si illumina di riflesso il mistero dell'uomo: creatura, peccatore, salvato per puro dono.
Giuseppe è paragonato ad Adamo, che nudo non si vergognava (Gn 2,25), perché prima del peccato la sua nudità di creatura, priva per sé di essere e di dignità, era ricoperta dal manto della gloria di Dio, dell'amicizia con Lui, della consacrazione a Lui, dell'innocenza.
Dunque, tra tutte le figure del Signore Gesù, la Chiesa considera con particolare attenzione Giuseppe, perché vede in lui il tipo del nuovo Adamo, del corpo spirituale, della carne gloriosa, che sta per risorgere dal sepolcro del Cristo, inaugurando la natura nuova dell'uomo redento.
Giuseppe sta in mezzo, tra il primo Adamo peccatore, denudato della gloria e coperto di vergogna, e il nuovo Adamo rivestito di gloria e di incorruttibilità (1 Cor 15,45).
Egli è il segno profetico di quella libertà dalle passioni e di quella vita da figli di Dio perché figli della resurrezione (Lc 20,36), che la passione immacolata e la risurrezione gloriosa dell'Unigenito Figlio hanno inaugurato per noi" 63).
Grande e Santo Martedì: La parabola delle 10 vergini
I primi tre giorni della settimana santa sono caratterizzati ciascuno dal loro tema proprio, ben definito dal titolo e dalla memoria, ma ancor più da un tema comune dominante: le nozze di Dio con l'umanità.
E' lo stesso tema della domenica precedente. Ma all'ingresso trionfale in Gerusalemme lo Sposo appare nella gloria, misteriosa e tutta diversa da qualunque grandezza mondana, di un momento profetico, che è come il preannuncio e il sacramento del suo ritorno glorioso e delle nozze pienamente consumate; ora invece la liturgia lo contempla mentre avanza per il sacrificio, per celebrare l'unione con la nuova Sion nel mistero pasquale della sua morte e della sua resurrezione.
Il nuovo Adamo viene in Sion per subire le umiliazioni, i tormenti, la morte e infine per addormentarsi sulla croce nella sua morte vivificante.
In questi tre giorni il tono delle celebrazioni è dato da due tropari: Idhù o Nymphìos érchete
Grande e Santo Mercoledì: La Chiesa "Casta Meretrice
"Oggi i divinissimi Padri, stabilirono che si facesse memoria della donna peccatrice che unse il Signore con il mìron, perché‚ questo avvenne poco prima della passione salvifica".
Così si esprime la memoria del giorno letta dopo il ricordo del santo del giorno.
La nostra liturgia fa memoria dell'unzione di Betania perché‚ vede, in quella unzione, prefigurata l'unzione che il Signore riceverà il giorno della sua sepoltura.
In effetti l'unzione di Betania fu una unzione. Lungo il suo ministero terreno, Gesù ha accettato altre unzioni con profumi. Era un'usanza ebraica, di cortesia, ungere l'ospite.
I nostri testi liturgici attingono a tutti e quattro i Vangeli senza toccare il problema dell'identità della donna o delle donne che unsero il Signore. Criticamente possiamo dire che un'unzione fu fatta, come narra Giovanni, da Maria, sorella di Lazzaro e di Marta che nei Vangeli di Matteo (che sarà letto domani) e di Marco é rimasta anonima. Mentre un'altra unzione fu fatta da una prostituta nella casa di Simone il lebbroso come ci narra Luca al cap.7,36-50.
La liturgia assume in blocco tutti e quattro i racconti considerando un solo mistero: quello della donna caduta in una moltitudine di peccati che ritrova in Cristo la dignità che aveva perduta. La ritrova con le sue lacrime e il suo pentimento. Si tratta di un mistero che deve essere annunziato fino alla fine del mondo.
Ancora una volta si é cantato il troparion: Ecco lo sposo giunge nel cuore della notte. Si Cristo giunge nella notte del peccato della donna prostituta: "
Grande e Santo Giovedì: Il dono più grande: l'Eucarestia e il più grande rifiuto: il tradimento di Giuda.
I divini Padri, che hanno disposto bene ogni cosa,avendo ricevuto questa tradizione dai divini apostoli e santi evangeli, ci hanno tramandato di celebrare in questo giorno quattro misteri: il sacro lavacro (lavanda dei piedi),la mistica cena (cioé la consegna dei tremendi Misteri dati a noi), la preghiera misteriosa di Gesù nell'orto e il tradimento.
La liturgia dunque pone oggi alla nostra considerazione quattro temi che troveremo ben sviluppati lungo tutta l'ufficiatura di questa sera e di domani.
Il nuovo tropario che sostituisce quello dello sposo é: Ote i endoxi mathité (Quando i gloriosi discepoli) che dà il tono alla celebrazione.
Si tratta di un testo molto bello e teologicamente assai ricco. Inizia col fare la mistagogia della lavanda dei piedi. L'autore accosta il niptir, cioè la bacinella dell'acqua, con la illuminazione. Nella tradizione orientale il battesimo viene definito illuminazione e nel linguaggio mistagogico illuminare equivale a conferire l'iniziazione cristiana a qualcuno cioè dare i tre sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell'Eucaristia. Dobbiamo allora intendere che il Signore Gesù in quella notte santissima ha battezzato i suoi discepoli prima di renderli partecipi del suo corpo e del suo sangue: dice infatti a Pietro "
La gioia pasquale
L'essenza del cristianesimo è credere nella morte e resurrezione del Signore Gesù Cristo, fondamento di tutto l'agire del credente.
In Quaresima, tempo a giusto titolo chiamato quadragesimale sacramentum, dove "sacramento" equivale in pratica a "strumento di salvezza", abbiamo vissuto la morte del Signore attraverso la pratica penitenziale. Nel tempo pasquale, tempo definito come: resurrectionale sacramentum, viviamo nella gioia la resurrezione del Signore, celebrando la sua misericordia perché con la resurrezione è venuta la riconciliazione a tutto il mondo.
Gesù risorto è il Signore della storia nostra, egli sta al centro della nostra sorte eterna e temporanea, egli è il fulcro di tutta la nostra vita, per cui la celebrazione del Signore è sempre la celebrazione di quello che lo Spirito Santo compie nella vita del credente: se è di Cristo, dunque è anche nostra.
Celebrare Cristo risorto significa celebrare l'uomo risorto, l'uomo battezzato, crismato e comunicato, l'uomo cioè unito alla sorte di Cristo.
Celebrare Cristo risorto significa per il battezzato riscoprire il proprio battesimo e le virtualità di esso.
Divideremo dunque questa meditazione in due parti: la prima ci introdurrà dentro il mistero della resurrezione, cioè dentro una caratteristica del mistero pasquale: la gioia della resurrezione, la seconda invece dentro il mistero della nostra unione col Cristo avvenuta nel battesimo-cresima-eucaristia, cioè nei sacramenti della iniziazione cristiana.
I Parte
La gioia biblica, della resurrezione, anche "dentro le tribolazioni", quasi non fa parte della predicazione cristiana.
Eppure è il culmine immediato della resurrezione del Signore. Così era sentito dalla Comunità primitiva. Così da tutti gli autore del N.T.
Esistono strani ricorsi. In effetti, la predicazione della gioia già si scontrava al tempo di Paolo con un mondo che è poco caratterizzare con triste. Come ai tempi nostri. L'eccellente livello culturale nell'impero romano, così cosmopolita, il saldo ordinamento giuridico della società imposto dai Romani, i fervidi e quasi febbrili culti misterici ed orientali, le filosofie popolari che insegnavano sia pure a pagamento i maestri itineranti, oltre le scuole classiche, gli operatori di prodigi e di miracoli che pullulavano, insomma tutte queste proclamate "vie alla salvezza"; ed inoltre, la complessa vicenda storica stessa al tempo del N.T. e di Paolo, la cosiddetta pax romana, che si rivelò piuttosto come una non-guerra momentanea, tutti questi fattori ed altri, promettevano tanto, ma se suscitavano qualche speranza presto delusa, non provocavano certezza, né gioia.
Anche quando personalità eccellenti, come anche i sollevatori politici, promettevano speranza e felicità future, mai parlavano di gioia, non era nelle loro prospettive. Il mondo antico, eppure, aveva un ricco vocabolario della gioia; tuttavia non aveva l'idea, i contenuti ed i motivi per una gioia vera e perenne.
Il nostro mondo è stranamente simile a quello di Paolo. Le ideologie politiche e le teorie spicciole, il pensiero, le scienze, l'arte e la cultura in genere non conoscono la gioia, non la nominano.
Si parla ancora di progresso, di sviluppo, di felicità promesse, ma non si conosce e non si parla mai di gioia. E paradossalmente proprio su questo sembra essersi attenuta da secoli la stessa predicazione cristiana. La quale pure ha come centro "la gioia della Resurrezione".
Ha forse San Paolo inventato qualche cosa? Ha solo, contro corrente, predicato la gioia promessa dal Signore, contro ogni evidenza, già nella sua vita storica (cfr Gv 16,20-22), e gioia da vivere non in un futuro più o meno probabile, ma già nell'esistenza terrena redenta.
Il Risorto stesso ha provocato la gioia dal primo istante della sua resurrezione, a cominciare dalle donne fedeli al sepolcro vuoto, la "gioia grande" (Mt 28,8), completata da quella dei discepoli impauriti, "nel vedere il Signore" (Gv 20,20b). Proprio qui Paolo irrompe con questo carico di grazia realmente esplodente, nel mondo pagano. Il quale giocava, sì, ma non si divertiva.
Paolo porta semplicemente l'annuncio dell'Evangèlion, la novella gioiosa secondo l'etimologia precisa, che era la predicazione apostolica comune, prima e dopo Paolo.
La gioia di Paolo, predicata con tanta insistenza, è anzitutto e si direbbe esclusivamente, in Cristo risorto e nello Spirito Santo. Certo il mondo antico, privo come era di coscienza storica e dunque di proiezione reale nel futuro vivibile, non poteva avere motivi di gioia autentica. I fedeli invece hanno contenuti e motivi, nel Kyrios, il Signore, per cui si deve esultare santamente, e se non vi fosse compreso, di nuovo Paolo lo ripete, occorre gioire sempre nel Signore (Fil 4,4). E nel Signore gioisce egli stesso, pur tra le immani tribolazioni apostoliche, per le buone condizioni spirituali di questa comunità prediletta.
Paolo sa tuttavia che questa gioia non è opera umana. Essa al contrario, scaturendo dalla resurrezione, è un preciso, inaudito dono dello Spirito Santo. Che precisamente allieta anche nella tribolazione, anzi a causa della tribolazione; la parola stessa è ricevuta nella thlìpsi, la tribolazione sia dell'apostolo, sia dei suoi fedeli (1Ts 1,6), tema così caro a Paolo. Questa grazia divina che è la gioia è quindi un dono operato ed operante, sia pure nelle difficoltà del momento. Essa si configura anche come il Regno di Dio, i cui contenuti, benché non tutti, sono prima di ogni altra realtà "giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rom 14,17).
La gioia così è il frutto dello Spirito Santo, frutto unico ed indivisibile nella mirabile triade iniziale di un altrettanto mirabile serie di tre triadi: "amore-gioia-pace / pazienza-benevolenza-bontà / fedeltà-mitezza-dominio di sé" (Gal 5,22,23).
Tale tradizione della gioia pasquale proseguiva inalterata negli echi che possiamo ascoltare dagli atti dei martiri, i quali si avviavano a rendere testimonianza, cioè che Cristo era risorto, e dunque vivente, cantando salmi ed inni. Spettacolo incomprensibile ed irritante per i loro carnefici e per il mondo a cui i martire erano offerti come supremo spettacolo. Nei martiri questo non era esaltazione fanatica, non era il gusto orrido della sofferenza e della morte, che invece evitavano per quanto potevano. Era lucida e cosciente esultanza perché erano stati resi degni di testimoniare la loro fede inconcussa, e perché vedevano il Regno della gioia senza tramonto aprirsi gioiosamente per loro.
Annunciare sempre ed instancabilmente Cristo risorto, come hanno fatto i martiri, e la sua gioia, ad un mondo triste come il nostro, che ancora gioca ma non si diverte affatto, è offrire nella suprema carità, per il bene esclusivo degli uomini nostri fratelli, i contenuti veri, autentici, reali, specifici della vita cristiana. Degna quindi di essere vissuta, nella Parola della gioia trasformante.
Nella liturgia bizantina la notte di pasqua è tutta incentrata sulla gioia. Gli inni che ci cantano durante la veglia, composti da S. Giovanni Damasceno, sono cantici di gioia.
II Parte
La vita del battezzato in Cristo risorto.
Abbiamo detto che il Cristiano battezzato-crismato e comunicato, partecipa della vita di Cristo in quanto è stato inserito in lui, unito a lui e nutrito di lui.
La parola bàptisma in generale, significa infatti immersione, immersione nell'elemento acqua simbolo di morte e di vita, immersione in Cristo che uccide il peccato e che dà vita nuova, immersione nella sua divinità, nella sua carne, nella sua sorte, ecc.
Il Padre ha disposto dall'eternità l'invio del Figlio e dello Spirito, affinché nella sua indicibile economia di salvezza e di divinizzazione questo suo Figlio Unico, nello Spirito Santo, si il Primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29).
Qui siamo rinviati all'A.T., che in questo è categorico. Il Signore Unico, il Dio vivente e buono, ha creato una volta e per sempre, senza pentimento, un'unica sua immagine e somiglianza, o icona (Gn 1,26-27). E' l'unica origine di tutti gli uomini. La sorte che divinamente è assegnata a tutti gli uomini è una e medesima: contemplare in eterno, in indicibile dialogo, il volto divino di bontà trasformante (cfr 1 Gv 3,1-2), che è la divinizzazione. E se dopo il peccato di Adamo il peccato prolifera e si comunica a tutti gli uomini come un'inarrestabile pestilenza, il disegno divino, che sembra frustrato alla radice, non si arresta.
La Sapienza divina riassume tutto e tutti dapprima con la vocazione di Abramo e poi con quella di Gesù di Nazareth, Dio fatto uomo, che ha assunto la condizione peccaminosa e mortale di tutti gli uomini, escluso il peccato.
Cristo Signore, l'icona perfetta del Padre (Col 1,15), deve per mezzo del suo spirito recuperare l'icona perfetta agli uomini, distruggendo il peccato fonte dell'alienazione dell'uomo da se stesso, dal prossimo, dal creato e da Dio. Cristo come Icona ha recuperato nella sua sfera personale questa armonia con se stesso, col prossimo, col creato e con Dio. Così il disegno di Dio che ha il suo inizio in Cristo, troverà il suo compimento quando sarà accettato dagli uomini, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, una immensa folla che nessuno potrà mai contare (cfr Ap 7,1-17).
Tutto questo non è altro se non l'opera efficace dell'iniziazione cristiana.
A questo proposito, S. Gregorio il Teologo così si esprime:
"L'illuminazione (il battesimo) è splendore delle anime, mutamento della vita, interrogazione della coscienza a Dio (1Pt 3,21). L'illuminazione è aiuto della nostra debolezza.
L'illuminazione è rigetto della carne e sequela dello Spirito, comunione del Verbo, correzione dell'uomo plasmato, diluvio del peccato, partecipazione della luce, dileguamento della tenebra. L'illuminazione è veicolo a Dio, pellegrinaggio di Cristo, sostegno della fede, perfezionamento dell'intelletto, chiave del regno dei cieli, mutazione della vita, espulsione della schiavitù, scioglimento dei vincoli, mutazione della composizione dell'uomo.
L'illuminazione - che si deve dire di più? -, il più bello dei doni di Dio e il più magnifico... Essa è l'icona della beatitudine di lassù".
E S. Giovanni Crisostomo nell'enumerare le prerogative del battesimo dice che esse sono dieci, e che dunque il battesimo non è dato non solo per la remissione dei peccati.
Dice il santo:
Archimandrita Marco
(Don Vincenzo)